Una giornata a Roma non è mai solo un itinerario turistico, ma un pellegrinaggio attraverso strati di storia, arte e segreti.
È l’alba, con una coppia di amici ci incamminiamo verso L’Aventino, un quartiere elegante con numerose ville e palazzine in stile Liberty, che si inseriscono in un contesto ricco di storia e giardini. È considerato uno dei quartieri più esclusivi e ricercati della città grazie alla sua posizione privilegiata, alla presenza di edifici storici e aree verdi, e alle terrazze da cui ammirare panorami mozzafiato.
In Piazza dei Cavalieri di Malta, sorge la Villa del Priorato di Malta, un gioiello progettato nel 1765 da Giovanni Battista Piranesi, circondato da mura decorate con obelischi e trofei militari. La piazza è un esempio di innovazione urbanistica, con elementi come pannelli, rilievi, obelischi e il simbolo della croce di Malta, che delimitano uno spazio privo di edifici che vi si affaccino direttamente. L’ambiente risulta isolato e quasi disabitato, con riferimenti alle armi, ai Cavalieri di Malta e alla famiglia Rezzonico.
La piazza ospita il portone che dà accesso alle proprietà del Gran Priorato. Attraverso un buco nella serratura di questo portone, si può ammirare, incorniciata dalla vegetazione, una prospettiva dell’imponente “Cuppolone”, come i romani amano chiamare la Cupola di San Pietro, creando un’illusione ottica suggestiva e affascinante. Appoggiando l’occhio, lo spettatore è ricompensato con una veduta perfettamente incorniciata e ridotta della cupola di San Pietro, che domina i giardini del Priorato di Malta. Il Buco di Roma è un dispositivo ottico che condensa lo spazio e il potere simbolico in una minuscola fessura. È l’invito a uno sguardo privilegiato, quasi voyeuristico, che trasforma l’osservatore in un iniziato, capace di cogliere la bellezza attraverso un limite fisico imposto. Questa vista, resa possibile senza chiavi, permette di “spiare” Roma in modo inedito, lontano dai soliti itinerari turistici.

Buco della Serratura di Roma, Priorato dei Cavalieri di Malta, foto ©PaoloFarina
L’architetto Piranesi, noto anche per le sue incisioni di architetture oniriche e concrete, attribuì a questa scena un significato simbolico, collegato alla leggenda che vedeva l’Aventino come una nave sacra salpata verso il cielo. La porta con il buco, simile a un ponte di nave, sarebbe stata pensata come ingresso al “ponte” di questa nave celeste. La posizione della serratura e la prospettiva sono probabilmente frutto di un’attenta progettazione architettonica di Piranesi, anche se questa tesi non si può affermare con certezza.
Lasciamo l’Aventino per proseguire verso il Tevere, l’Isola Tiburtina e la Bocca della Verità. La lunga passeggiata mi costringe a riflessioni riguardo lo sguardo. Il buco della serratura di Roma mi riporta a una situazione voyeuristica, questa volta all’interno di un museo.
Duchamp: Il Voyeurismo come Opera
Visitando le sale espositive del Philadelphia Museun of Art, si giunge in uno spazio praticamente deserto, nessun dipinto, nessuna scultura o qualcosa che attiri l’attenzione. A “rompere” la monotonia delle nude pareti vi è solo una vecchia porta in legno murata con dovizia, nient’altro, nessuna descrizione, nessuna indicazione. Attraverso un’apertura trova una risonanza complessa e inquietante in Marcel Duchamp e nella sua ultima, misteriosa opera installativa: Étant donnés: 1° la chute d’eau, 2° le gaz d’éclairage (1946-1966). L’opera, concepita da Duchamp per essere esposta solo dopo la sua morte, racchiude quello che può essere definito il suo testamento spirituale, dando vita ai temi chiave di tutto il suo percorso artistico.
La maggior parte del pubblico si ferma davanti alla porta, indugia, si guarda attorno perplessa e lascia la stanza. Altri cercano, spingendo leggermente, di aprirla o perlomeno cercano di capire se porta da qualche parte. Anche in questo caso il visitatore se ne va senza capire il senso di quella stanza vuota. C’è però una parte di curiosi che pazientemente si ferma a osservare il vecchio portone e i più attenti scorgono, tra i segni del tempo che hanno intaccato il legno, due fori ad altezza degli occhi. A questo punto ci si avvicina e si “spia” attraverso i due pertugi, ed ecco apparire l’opera del controverso artista francese. Attraverso questi “buchi”, si scopre una scena iper-realista: una figura femminile nuda, con le gambe divaricate, che tiene in mano una lampada a gas sullo sfondo di un paesaggio con cascata.
Il “buco” duchampiano eleva l’atto del voyeurismo a condizione essenziale dell’esperienza artistica, trasformando l’opera in una meditazione sull’erotismo, sulla percezione e sulla necessità della partecipazione attiva e compromettente dello spettatore.

Marcel Duchamp, Étant donnés: 1° la chute d’eau, 2° le gaz d’éclairage, 1946-1966, materiali vari.
Il tema dello sguardo in Duchamp è centrale e si manifesta come un “doppio sguardo” tra opera e spettatore, dove il significato si crea nello scambio e nella messa in discussione della visione tradizionale. L’artista è come se dicesse: “Se non coltivi la curiosità, rischi di perdere l’opera più significativa: la scoperta. In questo modo diventi soltanto un spettatore apatico, un semplice osservatore privo di coinvolgimento emotivo e mentale.”
Arriviamo in Piazza Bocca della Verità dove si trova l’antico mascherone in marmo, uno dei simboli più celebri di Roma, collocato dal 1632 nel pronao della Basilica di Santa Maria in Cosmedin. La Bocca della Verità è un buco pericoloso per i bugiardi. Secondo la leggenda morde la mano a chi mente. Il “buco” della Bocca della Verità non è un semplice foro, ma una soglia, un varco. È il punto di non ritorno che separa l’innocenza dalla colpevolezza. Il passaggio della mano attraverso questo “buco” simboleggia il superamento di un esame morale o il confronto con il proprio segreto.

A pochi passi dal quartiere ebraico, circondata dai palazzi un tempo appartenuti alla nobile famiglia Mattei, dove soggiornò Giacomo Leopardi tra il novembre 1822 e l’aprile 1823, sorge una tra le fontane più belle di Roma, la Fontana delle Tartarughe. Di fronte vi era la galleria di Pio Monti, chiusa nel 2022 dopo la sua morte e oggi trasformata in un negozio di abbigliamento, così come lo spazio Idill’Io che aveva aperto a Recanati, oggi trasformato in rosticceria. Nel 2006 il famoso gallerista organizzò una mostra intitolata “Il Buco”.
Il Buco nell’Arte: Achille Bonito Oliva e David Peat
La mostra, curata da Achille Bonito Oliva con la collaborazione del fisico F. David Peat, era una riflessione sul vuoto, sul limite e sulla dimensione infinitesimale e cosmica. L’allestimento e il catalogo esploravano il buco non solo come forma fisica, ma come concetto filosofico e scientifico.
L’arte contemporanea non propone più uno sguardo prospettico, ma mentale. Il “buco” diventa concettuale: è il vuoto filosofico. Bonito Oliva, noto critico e teorico della Transavanguardia, ha utilizzato il buco come metafora di una breccia nella realtà, un punto di contatto tra l’arte, la fisica quantistica (con i riferimenti di Peat alle stringhe e ai multiversi) e l’infinito. La mostra ha messo in luce come il vuoto possa essere interpretato come un potenziale, un luogo di infinite possibilità o di profonda introspezione. Il buco non più strumento di visione, ma di riflessione.
La potenza simbolica del buco si estende al cinema in due opere recenti e distinte che non ho visto ma di cui ho letto le trame.
Il Buco nel Cinema: Metafore Verticali e Abissali
“Il Buco (El Hoyo)” di Galder Gaztelu-Urrutia (2019), un allegorico thriller spagnolo ambientato in una prigione verticale con un buco centrale che permette il passaggio del cibo tra livelli sovrapposti. La scena simboleggia la disuguaglianza sociale e l’egoismo, con i livelli superiori che si saziano a discapito di quelli inferiori, rappresentando una società distopica priva di solidarietà. Il buco diventa una metafora dell’abisso morale e della lotta per la sopravvivenza.
“Il Buco” di Michelangelo Frammartino (2021), è un’opera contemplativa e documentaristica che ripercorre una spedizione speleologica del 1961 nell’Abisso di Bifurto. In questo caso, il buco è un portale naturale che simboleggia scoperta, meraviglia e il viaggio nelle profondità della Terra e dell’esistenza.
Entrambe le opere utilizzano il simbolo del buco, ma in modi opposti: uno come metafora sociale e morale, l’altro come porta verso l’infinito naturale e spirituale.

La giornata si conclude al calare della sera, raggiungendo la Metro al Colosseo. Osservando le rovine del Foro Romano, si percepisce un gigantesco buco nel tempo. Ogni colonna spezzata, ogni fondazione interrata, ogni rovina rappresenta un vuoto di presenza, un’assenza che ci costringe a guardare indietro, a colmare mentalmente il vuoto lasciato dal passato. È come se il silenzio di queste pietre ci invitasse a riflettere sulle infinite storie che un tempo animavano questi spazi, ricordandoci che anche ciò che sembra perduto può vivere ancora nelle nostre memorie e nel nostro immaginario.

“cum cadet Colyseus cadet et Roma; cum cadet Roma cadet et mundus” (Beda Venerabilis, VIII secolo), foto ©PaoloFarina
E che dire del Colosseo? Mark Twain, nel suo libro Gli Innocenti all’estero del 1869 lo chiama “quella cappelliera piena di buchi, e di finestre, rotta da una parte, come se avesse avuto un morso”. Twain descrive il monumento con un misto di fascino e umorismo, criticando le condizioni dei resti e la sua strumentalizzazione per il profitto turistico.
Il viaggio attraverso questi “buchi” rivela una costante nell’indagine umana: che si tratti di un mirino che restringe l’orizzonte per intensificare la bellezza, di un‘apertura che rende l’arte un atto voyeuristico, di un concetto che esplora l’infinitesimo cosmico, o di una voragine che espone le dinamiche sociali o la maestosità della natura, o di un foro ricco di storia, il buco ci invita sempre a guardare oltre, a superare la superficie e a confrontarci con ciò che è nascosto, profondo o inaccessibile.
-Nikla Cingolani

